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Rinunceremo ai nostri progetti futuri per paura di fallire?

Redazione Ansa

Secondo una indagine Coop sulle aspettative degli italiani per il 2024, circa una persona su tre dichiara di aver rinunciato ad acquistare casa o a cambiare lavoro. Vorrebbe, ma già sa che non lo farà. E tra i giovani 20-40enni, oltre la metà si dichiara per nulla interessata a diventare genitore, mentre un ulteriore 28% vorrebbe un figlio, ma già prevede che non sarà possibile. Interrogati sullo stato d’animo con cui si inizierà l’anno, nonostante una certa inquietudine per le tensioni geopolitiche, l’instabilità economica e i cambiamenti climatici, tra i sentimenti dominanti dei cittadini trovano posto la serenità (33% degli intervistati) e l’accettazione (28%). Così, in un clima tra il positivo e l’amaro, si abbandonano sogni e progetti futuri.

In un contesto di incertezza in cui molte opportunità di miglioramento della qualità della vita sono limitate, una fotografia del genere non dovrebbe sorprendere. Eppure, questi dati hanno lasciato dell’amaro in bocca anche a me. Un amaro che dovrebbe mettere in allarme un po’ tutti, perché senza progettualità per il futuro non c’è cambiamento. Se rinunciamo a inseguire i nostri progetti o peggio ancora a realizzare nuovi progetti, come potremo dare una direzione ai nostri passi? Se smettiamo di credere nel futuro che vogliamo o non riponiamo sufficiente fiducia e impegno, come potranno “cambiare le cose”? Si tratta di un tema che riguarda tanto le persone quanto la politica.

Partiamo dai giovani. Alessandro Rosina, tra i maggiori esperti italiani di demografia, chiarisce che il vero problema del nostro Paese non è l’invecchiamento, dal momento che la longevità intesa come vivere bene e a lungo va favorita, ma il “degiovanimento”, e quindi l’indebolimento della popolazione attiva: “L’anomalia italiana non è la longevità, ma l’avere sempre meno giovani, caratterizzati oltretutto da una debole presenza nella società e nel mondo del lavoro”.  Un degiovanimento quantitativo, con sempre meno giovani a causa sia delle minori nascite sia dell’emigrazione in altri Paesi causata dal non poter realizzare i propri sogni nel nostro, e un degiovanimento qualitativo, non essendo i giovani messi nelle condizioni di poter dare il proprio “contributo qualificato allo sviluppo economico e sociale”. Con la frequente carenza di un adeguato compenso per il lavoro svolto, essi diventano anche meno propensi a mettere su famiglia e fare figli.

Se la questione economica rappresenta la causa principale del calo demografico, anche altri fattori entrano in gioco. “Parliamoci chiaro”, mi ha detto un giorno una mia amica, “chi non avrebbe paura di mettere al mondo un figlio in un mondo così?”. Le incertezze economiche, gli scarsi aiuti alle donne, il disagio del “tutto può succedere” ereditato dalla pandemia, gli effetti del cambiamento climatico sempre più evidenti, i giornali che raccontano di violenze dal campo di guerra fin dentro le case e tra giovani, spingono molti a domandarsi: “in che mondo vivrebbe mio figlio?”. E poi le tensioni e i divari sociali, che rischiano di ampliarsi ulteriormente nei prossimi anni a causa della disinformazione, la principale minaccia nel breve termine per le economie globali secondo l’ultimo Global risk report.

In un quadro così fosco, sono le motivazioni personali a rivestire il ruolo di protagonista nella scelta per la genitorialità. Ognuno trova le sue ragioni per diventare madre o padre: come atto di amore, per senso di responsabilità, come desiderio di educare nuove vite o altro ancora (qui una curiosa panoramica sulle motivazioni più disparate dei trentenni di oggi). Ma sostenere queste scelte è compito delle politiche e della società. Non solo con aiuti concreti come gli asili nido, ma anche, come sottolinea uno dei racconti nell’articolo, attraverso “la riduzione della pressione sociale, del carico mentale, dei rischi connessi, a partire dalla conseguente perdita di occasioni lavorative, avanzamenti di carriera, soldi, realizzazione”. Linda Laura Sabbadini, su La Repubblica, sostiene che: “La bassa fecondità non può essere affrontata in modo ideologico. La bassa fecondità è l'effetto di politiche tardive e che non hanno puntato sulla centralità dei bisogni delle donne e sul desiderio dei giovani a una vera qualità della vita”.

Investire sul futuro dei giovani vuol dire creare le condizioni necessarie affinché possano realizzare le loro ambizioni professionali e familiari e trasformare il loro vivere “con i sogni appesi” in sogni avverati, per utilizzare un’espressione di Ultimo, cantante caro alla Generazione Z (giovani del 1997-2012).

E dimmi che cosa vedi
Quando pensi al domani
Quali domande? Quante risposte?
Forse domani ripeti forse
E vivo coi sogni appesi
Vivo, vivo coi sogni appesi

La scarsa capacità delle politiche di investire sul futuro e l’insufficiente fiducia nello sviluppo sostenibile si manifestano anche nel percorso di transizione ecologica e digitale. L’ultimo Rapporto ASviS ha mostrato chiaramente come “in questi otto anni l’Italia non abbia scelto in modo convinto e deciso l’Agenda 2030 come mappa per realizzare uno sviluppo pienamente sostenibile sul piano ambientale, sociale, economico e istituzionale”. Ne sono un esempio le fonti rinnovabili: sebbene si notino alcuni segnali positivi, come i decreti attuativi per le Comunità energetiche rinnovabili (Cer), dall’altra parte l’Italia arranca rispetto agli altri grandi Paesi sulle auto elettriche, non essendo allineata ai trend di crescita internazionali, a testimonianza di come il nostro Paese non abbia ancora pienamente scommesso su di esse, benché fonti autorevoli come l’Agenzia internazionale dell’energia ci dicono chiaramente che le prospettive del mercato della mobilità elettrica sono molto positive, che nel 2030 metà dell’elettricità globale sarà alimentata da fonti rinnovabili e che per ogni posto di lavoro perso nei fossili ce ne saranno due nel settore delle rinnovabili. Infatti, l’elettrificazione risulta l’opzione tecnologica più promettente per il trasporto passeggeri su strada e, come sottolineato nel Position Paper ASviS sulla decarbonizzazione dei trasporti, rappresenta “l’unica soluzione capace di far crescere i volumi di rinnovabili nei trasporti”: ecco perché occorre rendere “prioritaria l’elettrificazione per tutti i mezzi e i servizi di mobilità in cui è possibile”.

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di Flavia Belladonna

 

Fonte copertina: Ansa. In foto Martin Cooper, inventore del primo telefono cellulare commerciale

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